lunedì 19 gennaio 2009

Immigrazione: chiudiamo momentaneamente le frontiere

Ogni volta che la problematica dell’immigrazione mi tocca da vicino, sia per contatti diretti con persone immigrate nell’ambito lavorativo ed in quello sociale, sia per le discussioni riguardanti queste tematiche che nascono fra amici e conoscenti, mi ritrovo a dover lottare fra l’istinto e la ragione.
L’impulso proveniente dalle viscere, ovvero l’istinto, mi riporta alla memoria quegli insegnamenti di carità e di assistenzialismo che la maggior parte di noi ha ricevuto nell’infanzia e nella prima adolescenza frequentando il catechismo cattolico.
Al primo impatto giudico tutte quelle persone che si ritrovano in terra straniera, per ragioni legate alle precarie condizioni socio-economiche dei loro paesi d’origine, come degne d’aiuto generoso ed incondizionato.
Confesso che questo metro di giudizio ha padroneggiato nel mio essere per diversi anni, poi, l’esperienza quotidiana e la volontà di analizzare obbiettivamente il fenomeno hanno creato le basi per cui un metodo più razionale d’approccio al problema potesse manifestarsi.
Così, addentrandomi nelle innumerevoli sfaccettature del caso, prese forma quel principio che ancora oggi ritengo valido: il buonismo non sempre si trasforma in bene.
Non bisogna dimenticare questo concetto se si vuole realmente aiutare queste persone, perché la nostra nazione non è una fonte in grado di dissetare l’umanità intera, ma possiede una piccola riserva d’acqua, che se ben gestita può dare sopravvivenza ad un numero limitato di persone.
Ogni stato, ogni paese, ogni luogo delimitato da confini possiede una certa capienza che va rigorosamente rispettata se si vuole garantire a chi la occupa un gradevole soggiorno.
Dobbiamo impiegare le nostre forze nello studio di questa capienza, per capirne l’entità e per scoprire quanti nuovi occupanti potranno stabilirsi in essa trovandosi a loro agio.
C’era una corrente di pensiero che vedeva negli immigrati un’indispensabile risorsa di forza lavoro, che avrebbe trovato impiego nei mestieri di manovalanza ormai ripudiati dai giovani italiani; ma oggi non ha più ragion d’esistere, perché la crisi economica mondiale risentita anche nel nostro paese, sta gravando in modo particolare proprio in quei settori: edilizia, metalmeccanica, agricoltura.
Ormai non si tratta più di capire se ci sono posti di lavoro per gli stranieri, ma se ce ne sono per gli italiani.
C’è poi la piaga di quegli immigrati che creando un’attività lavorativa in terra italiana decidono di non rispettare le nostre leggi, praticando l’evasione dai permessi e dalle tasse, il mancato rispetto delle norme di sicurezza, lo sfruttamento minorile; provocando concorrenza sleale nei confronti delle già precarie imprese autoctone.
Prendendo in considerazione questa realtà attuale, quante nuove persone potremo accogliere garantendogli un lavoro, una casa, il minimo indispensabile per una vita dignitosa?
Dobbiamo avere il coraggio di porci dei limiti, perché dire ai bisognosi che possiamo aiutare realmente solo qualcuno è meno atroce dell’utopia di voler aiutare tutti.
E’ da queste considerazioni che traggo la seguente conclusione:
chiudiamo le frontiere per un periodo medio/breve di circa due anni, per contarci e per capire quanti cittadini può effettivamente ospitare l’Italia, e per decidere finalmente quali regole potranno garantire una serena convivenza.

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